Hideyoshi e Rikyū. Il signore della guerra e il maestro del Tè

TAKUMI - Nogami Yaeko - Hideyoshi e Rikyū - Carlo Scafuri


Ci sono libri che non si leggono: si contemplano, come si osserva il vapore che sale lentamente da una tazza di tè. “Hideyoshi e Rikyū”, capolavoro di Nogami Yaeko, è uno di quei libri. Un romanzo che non grida, ma sussurra, che non insegna, ma costringe a porsi domande… e che — soprattutto — accoglie il lettore nella stanza austera dove si consuma lo scontro fra il potere e la bellezza, fra il clamore del mondo e la poesia del vuoto.

TAKUMI - Un fiore, un mattino. L’Asagao e la lezione di Sen no Rikyū - Carlo Scafuri - Hideyoshi e Rikyū

Due uomini, due visioni del mondo

La penna di Nogami traccia con delicatezza la parabola tragica di un’amicizia impossibile. Da un lato Toyotomi Hideyoshi, il taikō, l’uomo che pose le basi per l’unificazione del Giappone a colpi di astuzia, acciaio e ambizione sfrenata. Dall’altro, Sen no Rikyū, l’enigmatico maestro del tè, la cui estetica essenziale — il wabi — rappresenta tutto ciò che Hideyoshi non riesce a possedere: silenzio, semplicità, profondità.

È qui che si innesta il cuore pulsante del romanzo: non tanto nella cronaca storica di un’epoca turbolenta — pure splendidamente ricostruita — quanto nella tensione invisibile fra due anime inconciliabili. Hideyoshi, affamato di riconoscimento, costruisce stanze dorate in cui celebrare sé stesso; Rikyū, al contrario, svuota il mondo per trovarvi il senso, rendendo ogni gesto una preghiera e ogni coppa di tè un riflesso dell’universo.

Un romanzo che è una cerimonia

Nogami Yaeko, con una scrittura misurata e insieme affilata, riesce nel piccolo miracolo di portare il lettore dentro l’esperienza del cha no yu. Leggere questo libro è come varcare la soglia di una chashitsu: bisogna togliersi le scarpe, abbassare la voce, e dimenticare ciò che si è per un po’.

La narrazione alterna il respiro ampio della Storia con l’introspezione psicologica più raffinata. E qui si sente l’influenza occidentale, quel tocco quasi austeniano che l’autrice — traduttrice lei stessa di Jane Austen — instilla in dialoghi sfumati, ritratti interiori, giochi di sguardi che dicono più di mille parole.

Ma la sua voce è profondamente giapponese: ogni descrizione è carezza, ogni scena è montata con la lentezza necessaria a lasciare che il lettore veda, ascolti, comprenda da sé. Una narrazione che non si consuma, ma si assapora — come il tè amaro del mattino.

L’arte come resistenza

In Hideyoshi e Rikyū non c’è solo bellezza: c’è dolore. C’è la solitudine di chi resta fedele ai propri ideali, anche quando il mondo chiede compromesso. C’è la forza silenziosa di Rikyū, che sceglie la morte piuttosto che tradire la via del tè, e c’è, soprattutto, la denuncia sottilissima di un potere che finge di amare l’arte mentre la usa come strumento di controllo.

La stanza del tè diventa così un campo di battaglia, ma non ci sono spade né grida. Solo lo sguardo basso di un uomo che prepara una tazza per il proprio assassino, sapendo che quella sarà l’ultima. E in quella tazza, in quel gesto che nulla chiede, si concentra tutto il significato dell’estetica giapponese: l’impermanenza, la rinuncia, la grazia.

Per chi è questo libro?

Per chi ama la Storia, certo, ma anche per chi ama quell’estetica sottile fatta di silenzi, di vuoti, di domande che restano sospese. Per chi trova più bellezza in una crepa che in una superficie liscia. Per chi, davanti al potere che ruggisce, preferisce la voce calma di chi serve un tè.

È un romanzo che chiede pazienza, perché lento è il ritmo con cui scorre. Ma quella lentezza è parte del dono: non si può comprendere la Via del Tè senza rallentare il passo.

“Hideyoshi e Rikyū” non è solo un libro: è un’esperienza spirituale, un invito alla sobrietà in un mondo che straripa. Un omaggio alla bellezza che resiste, silenziosa, anche quando tutto intorno crolla.

Nogami Yaeko ci regala una storia che, pur immersa nel XVI secolo, parla con urgenza al nostro presente. Perché il conflitto tra ambizione e armonia, tra apparenza e autenticità, è eterno. E perché, in fondo, tutti noi — nel nostro piccolo — siamo chiamati a scegliere: dorare le stanze o svuotarle di tutto ciò che è superfluo, per accogliere finalmente l’essenziale.


Consigliato a chi ha amato Memorie di Adriano di Yourcenar e Il padiglione d’oro di Mishima.
– Da leggere prima (o dopo) aver visto Rikyū di Hiroshi Teshigahara (1989).

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