Storia del nostro timbro “hanko”

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Secondo il sondaggio del Nomura Research Institute, a Luglio del 2020, il 61% delle ditte italiane ha adottato lo smart working, mentre in Giappone soltanto il 31% lo ha fatto. A mio avviso, uno dei motivi principali per cui non si è molto diffuso il telelavoro in Giappone è dovuto dall’importanza del timbro.

Come per le firme in Italia, i timbri in Giappone hanno un significato immenso. Ad esempio, quando si apre il conto corrente in una banca, quando si stipula il contratto di una casa o di lavoro, viene richiesto un timbro unico e lo si deve continuare a usare per tutta la vita. Se si dovesse perdere, si dovrebbe obbligatoriamente registrarne uno nuovo. In Giappone abbiamo addirittura un certificato comprovante l’autenticità del sigillo, un documento come la vostra carta di identità. Alcuni pagano oltre 1.000 euro per avere un proprio timbro.

Inoltre, anche a lavoro, come segno di approvazione, si usano quasi sempre i timbri, e soltanto il proprietario ha il diritto di utilizzarlo. È per questo motivo che, nonostante la pandemia, molti impiegati dovevano andare in ufficio soltanto per apporre un timbro sui documenti.

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Nella maggior parte dei casi sul timbro viene inciso solo il cognome. Prima dell’epoca Meiji (dal 1868~) soltanto i nobili potevano avere il cognome, ma grazie alla Riforma Meiji (dal 1866 al 88) ognuno ha iniziato ad averne uno a prescindere dal ceto sociale, permettendo così la diffusione dell’hanko.

Nel novembre del 2020, l’ex Ministro Kono ha rivelato la sua intenzione di utilizzare meno timbri per le procedure amministrative, e da questa decisione ne è conseguita una soppressione anche in alcune grandi ditte. Ho apprezzato molto questa mossa perché ci ha reso il lavoro più comodo ed efficiente, eppure trovo molto affascinante l’idea di avere un mio timbro, soprattutto nel mondo artistico, infatti grandi calligrafi lo usano spesso.

Shodō realizzato da Ayu Niijima. Il kanji qui realizzato è “amore”

In realtà, anch’io quando ero al liceo, durante una lezione dedicata mi feci il mio (che ancora uso oggi) con un’incisione minuziosa facendo attenzione ai più piccoli particolari.

Prima scelsi la pietra, poi lo stile dei caratteri. Una volta ricalcate le lettere sulla pietra allo specchio, le incisi con gli appositi attrezzi affilati, cautamente e con tanta cura. A me piaceva molto il momento dell’incisione, mi sentivo un artigiano medievale che creava timbri per i nobili. Quando lo usai per la prima volta e vidi la mia incisione prendere vita sul foglio, fu un momento bellissimo, emozionante.

Era unico, anche se non perfetto, ma questa imperfezione gli dava più ancor più bellezza e carattere. Ancora oggi, ogni volta che faccio shodō (calligrafia giapponese ndr) lo appongo come mia firma. Un giorno vorrei regalarne ai miei cari amici italiani.

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